Primavera privata

germogli in primavera

(Scrivevo stamattina su Instagram)
C’erano una volta un’italiana e un messicano che scelsero il 21 marzo di un anno qualunque per lasciarsi alle spalle i rinnovi del permesso di soggiorno, i pregiudizi, le separazioni, le distanze forzate.

Una sorta di primavera privata, perché a quel 21 marzo non invitarono nessuno. Presero un treno, misero la firma sotto la volta di una sala affrescata e poi andarono a mangiarsi una pizza gourmet.

Oggi l’italiana e il messicano celebrano il loro 21 marzo fra salotto e balcone, facendo scorte di vitamina D e preparando crêpes di banana e marmellata.

Un anniversario in quarantena

Chi l’avrebbe mai detto, in quel 21 marzo di un anno qualsiasi, che avremmo festeggiato un anniversario in quarantena a causa di una pandemia che scuote il mondo e ci getta a strapiombo nell’incertezza?

Il nostro anniversario cade oggi, in una primavera privata che forse ha diversi punti in comune con quella che vibrava nell’aria quando andammo da soli a sposarci.

La primavera arriva comunque

Non possiamo salire al Collserola o al Montjuic a sentire il profumo di alberi in fiore, ma il platano di fronte alla finestra del nostro salotto si sta lentamente colorando di gemme verdi.

Le guardiamo mentre prendiamo il sole che arriva sul balcone intorno alle 11. Stiamo lì una buona mezz’ora a cercare le gemme con gli occhi; intanto, sotto di noi, la gente fa la spesa nei negozi del barrio, sfrega fra le mani i guanti di plastica, si aggiusta le mascherine sulla bocca, alcune mantengono il metro di distanza, altre no.

Il profumo dei fiori nel vaso del vicino arriva leggero e poi si spezza con la zaffata di disinfettante che uno dei negozi al piano terra ha appena spruzzato su qualche superficie.

È un inizio di primavera che sa di gemme verdi e alcol etilico.
Di allergia stagionale che per un millisecondo diventa un “e se?”.

La primavera fa venire fame.

Decidiamo di fare una colazione da anniversario, in mancanza dei brunch che amiamo (amavamo?) tanto fare.

Abbiamo ritirato fuori la crêpière, sbattuto un impasto di farina e latte d’avena, rotto le prime due crêpes perché abbiamo perso la mano, impilato le successive in due piattini color pastello e coperto tutto di marmellata di pesche e banane.

Beviamo il caffè, non apriamo ancora le prime pagine dei giornali con il conteggio delle vittime nelle ultime 24 ore.
Rimaniamo sospesi in questa beatitudine da sabato mattina che sembra uguale a quella di tanti altri che abbiamo vissuto insieme.

Sarà una lunga giornata di sole, di colazione che scivola paziente verso il pranzo e di impasto della pizza da preparare per la sera.

Abbiamo provato a chiamare la nostra pizzeria italiana preferita nel quartiere per capire se stessero facendo consegne a domicilio, ma no.
Hanno smesso, forse è meglio così.

La primavera fa venire sonno.

Il Guerriero sta dormendo sul divano. Io sto scrivendo con le cuffie alle orecchie ascoltando una playlist che si chiama Piano Comfort.

Non ho aspettative per questo sabato.
Da quando è iniziato l’isolamento anche qui a Barcellona, una settimana fa, qualcosa dentro di me si è sciolto.

Il pensiero della vita che mi perdo fuori dall’appartamento, delle esposizioni da vedere, dei film con entrata ridotta del mercoledì, delle feste popolari, della gente che organizza eventi, è svanito.

Non ho ragione di uscire di casa, non c’è fretta.
La FOMO mi sta dando tregua.

Le quattordici o quindici ore di veglia giornaliera passano come devono, non le controllo più. Mi lascio andare al sonno quando arriva, inizio una traduzione il sabato pomeriggio senza la tensione di doverla interrompere per uscire più tardi, avanzo capitolo dopo capitolo con una serie leggera che mi alleggerisce la testa.

La primavera fa sentire soli

Ci ho provato di nuovo, per la terza volta nel giro di tre giorni. Ho fatto i quindici scalini che separano il nostro appartamento da quello del signor Martì, quasi-novantenne e vedovo da tredici anni.

I suoi figli vivono nel quartiere, credo che parli con loro ogni giorno. Però me lo immagino lì su da solo, in quegli ottanta metri quadri paralleli al nostro, e mi si stringono le viscere.

Una settimana fa ha bussato alla nostra porta per confermare di aver visto il biglietto che gli avevo lasciato sullo zerbino e con il quale gli offrivo il nostro aiuto, nel caso lo avesse necessitato. Era commosso, e io con lui.

Giovedì ho sentito uno dei suoi figli salire le scale per portargli i tupper con pranzi e cene per i prossimi giorni. Due frasi, un saluto, ed è tornato giù.

Probabilmente i suoi familiari hanno paura di poterlo contagiare, e magari gli hanno intimato di non aprire la porta a nessuno.
Vorrei lasciargli un altro biglietto con il mio numero di telefono, perché chiami se ha voglia di chiacchierare. Però esito.

Questa pandemia ci rende sbrigativi, all’erta nei rapporti umani, ci ha gettato in una primavera privata che ognuno vive come può.

Io sono molto grata per la mia.
Oggi va bene, ma non ho aspettative per come mi sentirò domani.

Un problema alla volta, scrivevo anni fa, quando il nostro 21 marzo non era ancora arrivato:

Quando il futuro sembra molto incerto e la mia capacità di azione è ridotta al minimo, non c’è molto che possa fare se non attendere. Il tempo si è dimostrato essere uno che ne sa, in materia. Sembrerebbe di no, ma alla fine scorre e risolve, dal silenzio passa alle risposte che suonano per chi ha voglia di ascoltarle.


Photo by Nitish Meena on Unsplash

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