Sono tornata a vivere a Barcellona da circa 3 mesi e, come avevo già percepito l’anno scorso, io e lei non siamo più le stesse. Ora lo posso confermare: non era il fatto di non avere più una scatola di fiammiferi in cui rifugiarmi a farmi sentire la differenza. Sono proprio io, è proprio lei.
Un anno e mezzo di vita in Italia ha interrotto in maniera forse un po’ brusca una relazione che era nata – come tutte le grandi storie – con una passione travolgente.
Avete presente le pause di riflessione? Quei momenti in cui una coppia sente il bisogno di ri-misurare le distanze, separarsi per forse poi riunirsi, ritrovarsi come individui e non come paio inscindibile.
E va beh, non soffermatevi sul fatto che le pause di riflessione non sono quasi mai foriere di buone notizie.
Io e Barcellona ce ne siamo concesse una, di pausa, ad aprile 2016.
Non che il nostro amore fosse finito, al contrario, ma la priorità era un’altra: dovevo andare via.
I miei primi mesi a Genova sono stati un susseguirsi di sospiri, pianti nostalgici e abbuffate di focaccia per ingoiare il magone della rottura.
Momenti in cui scrivevo post di questo tipo 👉 Americanah e il perché non mi abituo al ritorno in Italia
Ma se mi avete letto durante quell’anno e mezzo italiano, avrete capito che ho superato il trauma e Genova è diventata la mia amante.
Uno dei difetti di Barcellona è quello di cambiare troppo in fretta
Comunque, un anno e mezzo dopo, sono tornata. Ma la sensazione che non sarebbe stato più come prima è stata lampante già dai primi giorni.
Praticamente io e Barcellona siamo entrate nella fase matura del nostro amore, quella in cui ci si guarda negli occhi e ci si desidera ancora, ma senza perdere la testa, con pazienza e comprensione, consapevoli anche dei nostri difetti.
Starle dietro è difficile, e quando ci si allontana dal centro, come ho fatto io da 3 mesi a questa parte, ancora di più.
Cambiano i flussi di persone, cambiano gli edifici e le dinamiche che scorrono sotto la mia finestra, cambiano i ritratti che fanno capolino sui muri.
Io che amo ascoltare le pareti che parlano con le immagini, cercando la street art in ogni città che visito, ci ho messo poco a rendermi conto che Barcellona aveva cancellato alcune delle voci che preferivo.
Quella street art nel centro storico di Barcellona che non esiste più
Prendiamo il quartiere Sant Pere, Santa Caterina i la Ribera, che è quello che inizia da Arc de Triomf e scende verso il mare, interrompendosi con calle Princesa, prima che inizi El Borne.
Sant Pere è un labirinto di vite che si adattano a convivere una di fianco all’altra, spesso in appartamenti minuscoli, scatole di fiammiferi che a volte soffocano e ti portano a scendere nella piazzetta sotto casa, a bere un birra e ascoltare musica all’aperto. Sono le stesse piazze in cui si possono incontrare i ritratti della street art.
Queste strade, che ora sono puntellate di negozi di souvenir e gadget hipster a numeri civici alterni, un tempo (molto remoto) erano “la periferia” di Barcellona che si estendeva fuori dalle mura romane. Quella in cui si muovevano gli affari, e lavoravano gli orafi (carrer de l’Argenteria), i cappellai (carrer dels Sombrerers), i lavoratori del pellame (calle dels Assaonadors) o i cardatori di lana (carrer dels Carders). Ogni strada ricorda un mestiere.
I ritratti degli abitanti di Sant Pere, che non ti guardano più
E in un altro tempo, meno remoto, questa è diventata una delle zone in cui i vicini di casa hanno mille provenienze, i catalani di tutta la vita convivono con i marocchini, gli italiani, i peruviani e i senegalesi.
Il melting post si respirava anche solo passando di fronte all’Espai Mescladís di carrer dels Carders (in cui dovreste fermarvi a mangiare almeno una volta).
Il tunnel che da lì porta a carrer de l’Allada-Vermell era ricoperto da decine di foto in bianco e nero, occhi, sorrisi, occhiali da sole e abbracci che vi guardavano passare.
C’erano le signore con la messa in piega e la vestaglia da casa, le ragazze tatuate, i coinquilini di una scatola di fiammiferi, i ragazzi con il cappello da baseball e i bambini, gli stessi che andavano a giocare al parco giochi lì di fronte.
Era una carrellata degli abitanti del quartiere, che mentre ti guardavano sembravano proclamare la loro presenza, in un’esclamazione corale “eccoci, noi viviamo qui!“.
E infatti il progetto si chiamava “Qui som!” (Chi siamo!) ed era nato dall’idea del fotografo Joan Tomás, con l’obiettivo di mostrare la diversità e allo stesso tempo la forte identità collettiva degli abitanti di questo barrio.
Ogni volta che passavo sotto questo breve tunnel, venivo accompagnata da 200 ritratti le cui voci rimanevano impresse sulla carta, insieme alle citazioni e ai racconti della vita fra queste strade: una narrazione di quartiere che parlava di rispetto reciproco e conoscenza fra vicini di casa e passanti, ma che ora non esiste più. Il passaggio che porta a carrer de l’Allada-Vermell è stato intonacato, i volti dei suoi abitanti rimossi senza pietà, al loro posto una spadellata di cemento grigio.
È successo lo stesso a un’installazione simile nel barrio Gotico e di cui avevo parlato qui.
I due piccioni che non bevono più alla fontanella
Hanno fatto la stessa fine, cancellati dopo anni di sberleffi, i due piccioni che sedevano sul rubinetto della fontanella di Plaça de Sant Agustí Vell. Era un’opera dell’artista lituano Ernest Zacharevic, diventata suo malgrado famosa per aver dato vita a una narrazione grafica: i piccioni in origine erano tre. Il terzo di loro, meno fortunato, giaceva a terra morto ai piedi del terzo rubinetto: sembrava vero. Ma qualcuno non aveva gradito, e il terzo volatile era stato cancellato dalla scena.
Che la morte faccia senso anche quando dipinta?
Fatto sta che quel gesto di rimozione aveva dato vita a una forma di protesta e provocazione da parte di diversi artisti che di volta in volta aggiungevano il loro “terzo elemento”: nel giro del solo 2015, da qui sono passati cavalli, pulcini, serpenti e una manifestazione di animali-fumetto. Tutte le fasi della storia si trovano qui.
E meno male che qualcuno ha pensato a fotografarli, perché anche loro, protestanti e piccioni a riposo, sono ormai scomparsi nel nulla.
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A volte non ti riconosco più, Barcellona. Ti muovi troppo in fretta, non ti lasci apprezzare fino in fondo, dando la sensazione di volerti semplicemente vendere al primo miglior offerente.
Per fortuna sei ancora una città la cui gente si muove, risponde e, se costretta, lavora in segreto, come gli street artist che disseminano messaggi d’amore fra le tue strade.
Quello che riconosco più spesso, camminando a naso in su nelle strade di Sant Pere, del Borne o del Raval, è l’anonimo artista de las latas (l’artista delle lattine), che incolla messaggi 3D di ferro stagno sui muri.
Una bella carrellata dei suoi messaggi, si trova qui.
Tu haces que la vida se me vuelva de colores
[Tu riesci a rendere la mia vita a colori]
recita una delle sue installazioni.
E cara Barcellona, per me è ancora così. Ma non ti capisco quando quegli stessi colori poi li vuoi cancellare.
❣
Altre cose da vedere a Barcellona:
Con il tempo contato – quello che non ho visto di Barcellona
Cara Giulia,
mi ritrovo moltissimo nel modo in cui descrivi il tuo rapporto con Barcellona. Per me è come un’amica il cui rapporto è in continua evoluzione. A volte mi calma, altre mi sorprende, altre ancora mi fa paura.
Ho vissuto a Barcellona quasi un anno, sono andata via questa estate e ancora non trovo il coraggio di tornare.
Un abbraccio
Ciao Carlotta, prendi il tuo tempo per tornarci con calma. Ci sono amicizie che se prese nel momento sbagliato possono risultare soffoconti…Barcellona non scappa, così hanno detto a me quando sono andata via, ed eccomi di nuovo qui, un anno e mezzo dopo 😉 Un abbraccio!