Non hai una casa, ne hai dieci – storie di amicizia

Chissà per quale strano incantesimo, ho difficoltà a pensare a una delle mie ex-colleghe della Clinica che non abbia una storia interessante da raccontare. Un’umanità femminile e internazionale a confronto intorno a un tavolo da cucina, a un caffè o alle birre del dopo lavoro, che si racconta episodi di vita tra una forchettata e l’altra, forse come contrappeso alle storie che ci scaricano sulle spalle le pazienti al telefono.

La mia amica A. è di Rabat, ha vissuto metà della sua vita in Spagna, e ogni tanto il suo accento tradisce gli anni da studente in Andalusia. Non diresti mai che la sua lingua materna è l’arabo. È arrivata nel gruppo con i suoi occhi grandi e neri, uno sguardo dolce e i capelli corti, sbarazzini. L’ho conosciuta come una persona allegra e di compagnia, una vita di spostamenti alle spalle ma comunque serena, fino a che non è arrivata la batosta. A certi eventi della vita non ci si può preparare, tantomeno quando hai trent’anni e qualcosa, una relazione di lunga data, un nuovo lavoro e sogni di cui parli alle amiche in pausa pranzo, senza dargli troppo peso.

A. è venuta a trovarmi insieme a un’altra cara amica, sei mesi dopo l’eruzione vulcanica che ha incenerito parte della sua vita. Eppure è ancora in piedi, e con una forza ammirevole – nonostante i kg persi e lo sguardo che non ha ancora recuperato il brillio di una volta – ha iniziato a voler rinascere.

Ci siamo abbuffate di raviolini al tartufo, pansotti in salsa di noci, fritti misti di pesce, gelati con sopra la qualunque e tramonti sulla passeggiata Garibaldi di Nervi. Fra qualche mese farà un viaggio ancora più lungo, il primo così lontano per lei, via lontano verso l’Asia.

tramonto Genova Nervi

Durante questo percorso di rinascita, due elementi sono stati fondamentali: chiedere aiuto e avere delle amiche vicino. Le due cose sono strettamente legate. Quando si vive fuori dal proprio Paese, lontano dalla famiglia e dalle amiche di una vita, avere vicina una rete di persone che possano – secondo necessità – prendersi cura di te anche se non lo chiedi esplicitamente, è un’ancora di salvezza.

Sarà che vivere fuori, senza altri punti di riferimento primari se non se stessi, affina la capacità di crearsi una rete. Per puro istinto di socialità. Sarà che le persone che trovi in una grande città, dove metà delle persone che ti circonda è emigrata come te, è già passata per certi momenti no e sa come ci si sente. Gli amici si trasformano in famiglia adottiva e si fa come si può: una mini camera per gli ospiti che diventa un rifugio temporaneo, le nottate sul divano a parlare o quelle al bancone del bar, i passi che scivolano sull’asfalto bagnato della mattina in qualche stradina del Gotico, la scusa di un caffè al volo per scambiarsi le chiavi di casa e sentirsi tranquille quando si è via. Piccoli gesti di amicizia che non ti fanno sentire sola.

fra amiche e tramonti

Siamo sedute a un tavolino in una terrazza all’aperto, sotto di noi la scogliera su cui si infrange il mare ancora nervoso di maggio. Guardo A. e sono felice di vederla chiudere gli occhi mentre mangia “il gelato più buono di tutta la sua vita”. La vedo decisa a voler stare bene, a prendere in mano i suoi trent’anni e qualcosa e dar loro una svolta nuova. Anche se ancora non riesce a evitare la pelle d’oca che ogni tanto la infreddolisce senza motivo e lo sguardo che si perde seguendo chissà quale sliding door del passato.

Mi ricorda com stavo io tre anni e mezzo fa, e di come la rete mi abbia aiutato a stare a galla. La rete di quelle persone che, fra lavoro e incontri fortuiti, sono entrate nella mia vita e hanno creato senza mettersi d’accordo il tessuto di socialità di cui ho così tanta nostalgia ora che affronto i primi tempi in una nuova città.

Lo sai che a Barcellona non hai una casa, ora ne hai una decina – mi dicono A. e C. allontanandosi verso la stazione con i loro zaini sulle spalle.

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