Pur essendo nata e cresciuta in Sardegna, il ricordo delle mie estati d’infanzia non è fatto di interminabili stagioni al mare, costumi stesi ad asciugare e pelle salata.
Al mare ci andavamo, certo, ma di solito in giornata, perché tanto la spiaggia più vicina era a meno di un’ora di macchina.
Fra le spiagge meravigliose nei dintorni del mio paesello, i miei optavano sempre per una un pelino più lontana ma a basso tasso di sbattimento: il tragitto era lineare, bastava percorrere la 131 e uscire al bivio di Arborea.
Noi figlie, felici per le risaie verde brillante e le mucche che facevano capolino dalle fattorie, mio padre felice perché non doveva fermarsi dieci volte per schivare minacce di vomitate collettive nei sedili posteriori dell’auto (né io né mia sorella avevamo stomaci d’acciaio).
Le mie estati di bambina hanno il mare come presenza sporadica, e si collegano invece a doppio filo con casa di nonna.
Nonna abitava in una casupola a dieci minuti di cammino da casa nostra.
Un cammino denso di insidie da paesello.
Per arrivarci dovevo superare la casa del signore senza gambe che stava sulla porta a guardare i passanti; il portone dietro cui viveva Varechina, un ragazzo con problemi mentali che ci terrorizzava con le sue crisi; il cane pastore con la bava alla bocca che un giorno—ne ero sicura—sarebbe riuscito a spezzare le sbarre di legno che lo separavano dalla strada e azzannarmi il polpaccio (non è mai successo).
Però una volta arrivata a casa di nonna potevo tranquillizzarmi, ce l’avevo fatta. Poteva iniziare il mio pomeriggio di giochi in strada con gli amici del vicinato.
Di solito ci riunivamo passate le ore più calde: fra l’una e le cinque il vicinato era deserto, l’aria bolliva ed era territorio di cicale e delle poche auto che rullavano sull’asfalto.
Dopo le cinque iniziavamo a far capolino dai cancelli, o gli amici mi venivano a chiamare suonando il campanello di nonna, uno di quelli analogici con il bottone scalcagnato in plastica, il cui suono ancora mi trilla in testa quando ci penso.
Insieme al campanello, giusto per essere sicuri al cento per cento, gli amici si sgolavano in un Aaaaaaali scendiiiiiii.
E io scendevo.
Di solito senza usare le scale ma scivolando lungo il corrimano, nonostante mia nonna non approvasse. A me piaceva troppo l’attrito di quella vernice gommosa del corrimano sul palmo delle mani.
Arrivata al piano terra superavo la verandina che profumava dell’uva acerba che pendeva dai rami di vite del piccolo portico, e del sapone di Marsiglia che mia nonna usava per lavare i panni nel tinello di pietra. Non ho mai capito perché non si si sia mai decisa all’acquisto della lavatrice, rimane uno dei misteri della mia vita.
Il pomeriggio passava fra giochi in strada, interminabili, sudati, sbucciati di catrame e intervallati dall’allarme “Macchina!” che urlavamo non appena compariva un’auto all’inizio della strada, cinquecento metri sopra la nostra postazione.
Quando il sole calava, il rumore di piatti e padelle proveniente dalle cucine attorno a noi iniziava a distrarci, sapevamo che nel giro di poco saremmo stati richiamati all’ordine per la cena.
La mia parte preferita doveva ancora venire: l’ora del fresco.
Dopo cena anche gli adulti uscivano in strada con le loro seggioline. I più moderni trascinavano sull’asfalto quelle di plastica, mentre le nonne si affidavano alle sempre efficaci sedioline di vimini.
Mio nonno non aveva bisogno di sedie: lui prendeva posto sui gradini di pietra che portavano al portone chiuso della sala da pranzo di casa.
Non ho mai capito perché i miei nonni avessero costruito una sala da pranzo con un’entrata indipendente sulla strada.
Una sala che oltretutto è rimasta sempre chiusa, se non in caso di matrimoni o funerali. Io passavo le ore nella penombra di quella sala da pranzo inutilizzata: era piena di reliquie preziose appartenute ad antenati e vicende familiari.
C’erano le foto del matrimonio degli zii d’Australia, gli album zeppi di fotografie color seppia con i bordi dentellati come francobolli, immagini di signore vestite di nero con su mucadore legato al collo ed espressioni corrucciate, una miriade di soprammobili e bomboniere che diventavano eserciti e personaggi da far marciare in cerchio.
I gradini di pietra che salivano alla porta di legno della sala da pranzo erano dunque il regno di mio nonno. Io mi sedevo a fianco a lui, lasciandomi coccolare e raccontare storie. Lui non amava chiacchierare coi vicini: la sordità—eredità di anni di lavoro in miniera—lo escludeva dalla gran parte delle conversazioni. Per questo le nostre erano chiacchierate a tu per tu, durante le quali io potevo arrampicarmi sulle sue ginocchia e parlargli dentro l’orecchio o farmi leggere il labiale. Conversazioni che profumavano di schiuma da barba e guance liscissime.
Prendevamo il fresco così, in una sorta di presepe estivo popolato di bambini vocianti, famiglie che a volte si criticavano alle spalle, nonne sospiranti e nonni su un trono di gradini di pietra.
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Che meraviglioso post! Hai rievocato un’atmosfera e un’epoca intera. Essendo cresciuta anche io in un paesino di provincia mi sono rivista in molte delle cose che racconti, tra cui quella delle insidie, che mi ha strappato un sorriso 🙂
Grazie Marta <3 forse le vite nei paesini finiscono per assomigliarsi tutte!
Ma come mai mi ero persa questo post?
Bellissimo, mi sono rivista da piccola. Io dai miei nonni però ci andavo a “lavorare” nel senso che avendo campi, orti e allevamenti, quando eravamo là qualcosa da farci fare lo trovavano sempre! Mia nonna era dolcissima, e adesso quando ripenso ai lavoretti che ci faceva fare (tipo mettere in bell’ordine le verdure nelle cassette o selezionare i fagiolini migliori) mi viene da ridere per quanto fossero semplici e sicuramente inutili (sono certa che poi ricontrollasse e rifacesse tutto da capo) ma all’epoca la prendevo come una fatica insormontabile da denunciare al Telefono Azzurro! 😉
I ricordi di infanzia sono fra le cose più belle. Che tenerezza i tuoi!