Io non ero mai stata una fan del caffè. Per anni sono stata convinta che il caffè mi agitasse, mi provocasse la tachicardia, mi confondesse la vista. Quando si dice le paranoie…
Poi non ricordo nemmeno come, ho iniziato a berlo. Forse quando mi sono resa conto che fra le varie cose che arredavano la mia scatola di fiammiferi c’era anche una caffettiera nuova. Forse sono state le colazioni a base di café con leche e panini al prosciutto a tamponare il nervosismo. Fatto sta che nel giro di un paio di settimane mi sono ritrovata caffè dipendente.
Che detto così è pure fuorviante, perché comunque continuo a limitarne l’assunzione a 1 massimo 2 al giorno. Una pivellina, esatto, me lo dico da sola. Se il caffè della colazione è la dose basica, quella del dopo pranzo è riservata solo a momenti speciali. Tipo quando sto rotolando via da un tavolo perché non mi sono moderata nell’assunzione di proteine.
L’ultimo caffè da dopo pranzo – che ha dato molta soddisfazione e riordinato lo stomaco dopo la mangiata carnivora di domenica scorsa a Lula – l’ho preso a Bitti, 3000 anime a una quarantina di km da Nuoro. Se il suo nome vi risulta familiare, è perché magari avete sentito parlare dei suoi tenores, le 4 voci maschili che hanno reso famose nel mondo le sonorità della Sardegna (e che io amo profondamente).
Al contrario di Lula, a Bitti domenica non c’era nessuno. Solo un gruppo di motociclisti tedeschi che stavano abbandonando i tavoli del bar della piazza, e un’avvenente ragazza dell’Est Europa che fumava in compagnia di tre vecchietti.
Insomma, nessuna di quelle scene di folclore sardo che uno si aspetta di trovare addentrandosi in Barbagia e compiendo il grande errore di dimenticare che anche qui è arrivato il 2015. La gente sta a casa a seguire le partite del campionato o magari a mangiare a quattro ganasce con la famiglia, come ogni domenica italiana che si rispetti.
Quindi questo caffè ce lo siamo goduti in santa pace e in un surreale silenzio domenicale. Le strade decorate con le bandierine per festeggiare la Vergine del Miracolo, un cronista televisivo che sbraita dietro a una finestra semi chiusa, un cane da cortile che mi vuole addentare il polpaccio. Cose semplici e tinte di una leggera malinconia, come i saluti a un padre o a uno zio che non c’è più.
I passi risuonano sul selciato, passiamo di fronte a un oratorio e le voci allegre dei bambini ci svegliano dal torpore del pomeriggio. Una pietra miliare ci ricorda che la città non è lontana, possiamo rimetterci in cammino.
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La Sardegna vietata ai vegetariani: Autunno in Barbagia a Lula
Questi sono i posti che piacciono a me, fuori dai circuiti turistici piu’ battuti. Tu me ne saprai dare conferma ma credo che la Sardegna vera sia quella di posti cosi’, piuttosto che quella della Costa Smeralda.
Che la Costa Smeralda non sia più Sardegna, non ci piove. Su cosa significhi Sardegna vera invece, dipende, ognuno ha le sue definizioni. Sono Sardegna questi paesini della Barbagia, dove molte tradizioni sono ancora radicatissime, è più facile sentire le persone che comunicano in sardo, o vederle indossare gli abiti della tradizione. Ma è Sardegna vera anche quella dove sono cresciuta io, per esempio, che non è Sardegna di spiagge né di montagna, bensì un’area di pianure, campagne e (furono) aree industriali, dove il sardo si sente meno ma lo si nota negli intercalari della gente. La Sardegna è un’isola grande e ci sono molte sfumature, sarebbe bello riuscirne a riassumere in breve i caratteri comuni ma io non ho il dono della sintesi 🙂
Bitti lo ricordo come un paese inclinato e rotondo, Budduso’ e’ sempre stato solo un nome curioso senza un volto.
ml
🙂 inclinato e rotondo, ci sta effettivamente. Budduso’ non mi sembra di ricordarla, forse non ci sono mai stata.
bè, i Tenores io li ricordo a Quelli che il calcio, scusami se sono così materialista e maschilista!
Onestamente non mi ero mai chiesto da dove provenisse il nome, ora lo so.
È vero, avevano avuto un grande ascolto, li ricordo anche io lí 🙂 ecco svelato il mistero del nome 😉
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