Domenica a Barcellona abbiamo vissuto una bella giornata di sole, di quelle che si sono fatte attendere a lungo durante questo interminabile inverno catalano (sì, pare che anche in Catalogna arrivi l’inverno).
Quindi siamo scesi in spiaggia, io, il Guerriero, due amici, e — a occhio e croce — qualche migliaio di altre persone, un mix inscindibile di locali e guiris *.
Stavamo sotto il sole, a guardare le onde del mare e due giovani uomini dell’est Europa non meglio identificato che, mani a proteggere i genitali da non si sa cosa, cercavano di sfidare il vento freddo e buttarsi in mare. Mentre loro inscenavano questa sceneggiata e si facevano scattare foto dei tatuaggi da un amico vestito di tutto punto, una bambina con un costumino rosa pallido sguazzava nel bagnasciuga costruendo castelli di sabbia. Nemmeno l’ombra di peli intirizziti. Probabilmente veniva da un est Europa molto più a est dei due tuffatori tatuati.
Io, seduta sulla pashimina diventata telo mare, rabbrividivo, e d’improvviso sono piombata nell’angoscia.
Cado in preda ai momenti di scoraggiamento.
Così, senza preavviso.
Vero che l’ansia è una brutta bestia, ma a volte mi piacerebbe essere avvisata per tempo.
Non fosse altro perché poi mi confondo, non riesco a darmi le risposte giuste e non capisco il senso di questo velo di scoraggiamento che rischia di appesantirmi anche nei giorni a seguire (infatti oggi è martedì, e continuo a sentirmi angosciata e scoraggiata).
Sono quei momenti di scoraggiamento che tornano su nei momenti di calma, perché nei momenti di fretta li butto giù, in fondo alla mia testa-pentola, tenendoli chiusi con la mano, cercando di arginarli e non dar loro ascolto.
Loro rimangono lì a sobbollire tipo l’acqua per la pasta, ed è inutile cercare di mantenere il coperchio sopra la pentola; arriverà il momento di ebollizione in cui l’acqua uscirà comunque dai pertugi del coperchio, sprizzando gocce incandescenti e sfrigolando sul fuoco del fornello.
I momenti di scoraggiamento tornano su a bruciarmi quando pensavo che fossero ormai evaporati.
Sto leggendo un libro che tempo fa mi regalò la cugina S. che vive dall’altra parte del mondo, alla fine del mio viaggio in Australia.
Si chiama ”The Happiness Trap” (versione italiana qui) e all’inizio non gli volevo dare retta perché pensavo fosse solo un manuale di auto-aiuto, e io non sono tipa da leggere quel tipo di letteratura.
È rimasto nascosto per un bel po’ di tempo, sopravvivendo a due traslochi, inscatolamenti, un montaggio libreria, e da poco mi è ritornato sotto il naso e mi sono detta apriamolo un po’, va.
C’è tanto materiale dentro, e diverse tecniche che non fa male imparare. Non l’ho ancora finito, ma mi sono rimaste impresse le tecniche di diffusione, gli esercizi da fare quando la nostra mente ci gioca scherzetti per farci piombare nel negativismo cosmico.
Ad esempio ho imparato a ringraziare la mia mente quando mi sottopone scenari apocalittici, a mantenere la distinzione fra il mio io che osserva e quello che pensa, e altre amene attività con cui scopro che giocare con la mente può essere più divertente che litigarci.
Alleno la mia mente a capire perché si scoraggia.
Il che vuol dire forse farmi più domande del necessario. Ma qualcosa di interessante viene fuori comunque.
Ciao, sindrome dell’impostore, lo so che c’entri (molto) anche tu.
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* guiris è una parola chiave per la vostra integrazione nella vita Barcellonese; indica originariamente i turisti di provenienza anglica, ma ormai si è estesa con affetto a la massa non meglio definita di turisti-del-fine-settimana che atterranno a Barcellona con compagnia aerea low-cost, bottiglia di birra in mano e/o coccarde/costumi/accessori da addio al nubilato/celibato.
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Ansia, fedele amica, spesso indesiderata… eppure a volte bisogna lasciarla entrare, perché è l’unico modo per farla andare via!
Proprio così, non rifiutarla a prescindere ma lasciare che faccia il suo corso. È uno dei capisaldi del libro che cito nel post…a volte è proprio difficile accettarla però 🙂
ti capisco, e so bene che la sindrome dell’impostore c’entra parecchio! La domenica, specie la sera, è di solito un momento a rischio per me, non so se anche per te sia così. Mi sto allenando anche io ma è dura. Un abbraccio
Un abbraccio a te Arya. Sì la domenica pomeriggio è un giorno a rischio, lo era molto di più quando vivevo in Italia ed ero insoddisftta della mia vita. Per cui lo considero un campanello d’allarme, quando torna la ”sindrome della domenica”, vuol dire che c’è qualcosa che non va 😉
Io credo che l’ansia sia un epifenomeno di qualcosa che sta muovendosi dentro di noi, è come un campanello, e per me il problema non è l’ansia in sé (chiudo gli occhi, respiro, penso a cose belle e di solito riesco a passare i brutti cinque minuti), ma quello che c’è dietro. Credo non bisogni sfuggire all’ansia, ma cederle e chiederle: cosa vuoi dirmi?
Oh si, è quello che c’è dietro, non tanto l’ansia in senso fisiologico, il problema 🙂
Allenarsi ad ascoltarla è tutt’ora uno degli esercizi più difficili ma anche gratificanti che faccio per me stessa.