Ti rendi conto

ti rendi conto

Le porte automatiche della clinica si aprono e le attraverso lentamente.
Una zaffata di disinfettante, l’androne vuoto, l’innaturale silenzio della reception che stride con il ricordo che ho di questo posto.
Mi avvicino claudicante allo schermo dell’accettazione, premo “Urgencies“, sfilo lo scontrino numero U008.
L’infermiera al banco della reception chiama quel numero un minuto dopo.

Ho la schiena bloccata, le dico.
Ha fatto qualche movimento brusco?
Sì, probabilmente in palestra.
Mi dia la tessera sanitaria, per favore.

Le porgo la tessera sanitaria azzurrina, lei osserva lo schermo da dietro due lenti spesse, sorride mentre digita i miei dati, poi mi dà le istruzioni.

In fondo a sinistra, si accomodi in sala d’attesa. C’è un po’ di fila; il sabato di solito la gente arriva verso le undici, ma stamattina siete arrivati tutti prima.

Non ci siamo certo messi d’accordo, penso, e trascino i piedi portando il peso della lastra di ferro in cui si è trasformata la mia schiena.

In sala d’attesa siamo una decina, pazienti e accompagnatori. Il Guerriero mi aiuta a sfilare il cappotto e a sedermi, non abbiamo fatto colazione, ma a me fa male tutto, non importa.

C’è un televisore accesso nell’angolo in alto a sinistra della sala d’attesa. Va in onda uno di quei programmi inutili del sabato, un amarcord dei momenti comici di Tele5 degli anni ’80 e ’90. È patetico, ma non sono scenari sconosciuti, assomiglia così tanto a quello che negli stessi anni ci proponeva la Mediaset italiana.

L’infermiera chiama un nome nuovo ogni 20-30 minuti.

Pepita. Ha un braccio stretto in una fascia elastica blu, il marito legge il resoconto sportivo de La Vanguardia.
Enriqueta. Si è rotta un braccio ma sorride senza denti, ha i capelli bianchissimi.
Olivier. Indossa ancora l’uniforme della squadra di calcio infantile, ha un numero 10 dorato sulla schiena e un braccio appeso al collo con una sciarpa di lana azzurra.

Mi sono portata dietro Il Sistema Periodico di Primo Levi, il tempo passa meno lento se leggo. Ci vogliono comunque due ore e mezza prima che chiamino il mio nome.

Alice. Mi alzo con un gemito tenendo aperte le gambe, penso che potrei sembrare incinta, gli altri pazienti in attesa mi guardano perché forse non pensavano di sentire lamenti da una che poco prima stava leggendo tranquillamente un libro.

Il dottore è giovane, venezuelano, ha i capelli neri ondulati e gli occhiali, le mani morbide. Gliele stringo mentre mi chiede di alzarmi sulle punte, poi sui talloni, mi chiedere di piegarmi in avanti e indietro, non riesco a scendere più di trenta gradi. Mi palpa la schiena e trova il nodo dell’infiammazione, apre la porta e chiede all’infermiera di preparare “il suo cocktail preferito”.

Ti faccio un’intramuscolo per sciogliere il dolore e farti rilassare un po’, poi segui questa terapia per cinque giorni.

Mi dà qualche raccomandazione e non ricordo nemmeno in quale momento del discorso vengo a sapere che è venuto qui in Europa pochi anni fa con la moglie, che tanto in Venezuela non aveva più senso rimanere, che una coppia di amici è rimasta incinta di un bambino contrariamente ai loro piani pochi giorni dopo il loro arrivo a Barcellona.

Adoro questa affabilità latina che ti fa sentire a tuo agio anche quando hai la schiena che brucia e stai aspettando un’iniezione intramuscolo. Io, che ho la fobia degli aghi, desidero forte che mi buchino la natica perché non riesco a respirare bene dal dolore. Vorrei anche che il dottor Antonio, il venezuelano affabile, rimanesse a raccontarmi ancora un po’ della sua vita, ma deve scappare a vedere il prossimo paziente. Ci stringe le mani, ci augura buona fortuna, mi raccomanda riposo per l’ultima volta.

Ti rendi conto di quanto siamo fortunati? chiedo al Guerriero.
Siamo arrivati in clinica sicuri che mi avrebbero curato. Non abbiamo dubitato un solo minuto del nostro diritto di ricevere un parere medico e una terapia. Dentro il portafoglio ho una tessera di plastica che mi apre le porte alla maggior parte delle specialità mediche, pagando nulla o solo pochi euro.

Qualche settimana fa una collega che vive negli Stati Uniti non riusciva a lavorare perché aveva un occhio gonfio e infiammato. Non sapeva perché e non aveva visto nessun medico.
Non riesco a guidare fino all’ospedale convenzionato con la mia assicurazione sanitaria, il più vicino è a 50km, ci aveva risposto.
Ora sta meglio, ha aspettato che passasse.

Gli ospedali non mi fanno più paura da diversi anni, forse aver vissuto con un medico mi ha aiutata. Ma le sale d’attesa, le porte con i maniglioni, i sussurri, i corridoi e letti bianchi, non mi fanno impressione.
La sensazione che prevale è invece quella di speranza, di avere il diritto di essere curata, di avere a disposizione persone che sono lì per farmi stare meglio. Provo gratitudine, anche.

Cerco di rialzarmi dal lettino in cui ero distesa per l’iniezione, il medicinale è diventato pietra incandescente nella natica sinistra. L’infermiera ci saluta sulla porta, rimettiti presto e riposa, buona giornata.

Cavolo, se siamo fortunati.


Foto di copertina di Freshh Connection su Unsplash.

8 risposte a “Ti rendi conto”

  1. Effettivamente siamo molto fortunati e non sempre ce ne rendiamo conto

    1. Proprio così 🙂

  2. Ma sai che anche io conosco un Antonio venezuelano che vive a Barcellona e fa il medico? Sarà lo stesso?
    Comunque eccome se siamo fortunati! Tutto ok si?

    1. Ahaha non lo so: vista la quantità di venezuelani che vive in città sarebbe davvero una coincidenza fichissima!

  3. Eh, ma ci vuole anche un certo spessore a ricordarsi quanto siamo fortunati frequentando le sale d’aspetto di un pronto soccorso…

    1. Sono una sentimentale, e la storia del medico venezuelano ha sicuramente contribuito a farmici pensare 🙂

  4. Ciao Alice, ho provato tanta empatia leggendo del tuo dolore alla schiena, un po’ perché ho sempre patito dolori alla schiena un po’ perché l’ultimo mi ha causato esattamente i tuoi sintomi. Avevo così male che non riuscivo quasi a respirare. Non so come mai, probabilmente un movimento brusco durante una pratica di Yoga, questa è la mia conclusione. Me la sono cavata con un antidolorifico per 6 giorni e spero non succeda mai più. Per quanto riguarda l’essere fortunati, mentre leggevo le tue parole, facevo “si” con la testa. È vero, abbiamo molte porte aperte e spesso le diamo per scontate. È importante invece leggere storie come quella che hai condiviso per ricordarci che della fortuna dobbiamo sempre essere grati, non darla mai per scontata e quando possibile ricambiarla con gesti volontari e disinteressati verso chi di fortuna ne ha molta meno.
    Ti abbraccio forte 🙂

    1. Un abbraccio forte a te, Dana <3 Siamo fortunate, sì, e io mi sento tale anche per il fatto di avere amiche come te.

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